Consegnato il Premio di laurea Cgil, Cisl e Uil del Trentino
Diseguaglianze sociali, lavoro e istituzioni intermedie al centro della sedicesima edizione del premio promosso dai sindacati insieme all’Università di Trento
Sono Claudia Brunori (Sociologia e ricerca sociale), Emilia Filippi (Economia e Management) e Michele Mazzetti (Giurisprudenza) i vincitori del premio di laurea Cgil, Cisl e Uil del Trentino 2018, rivolto a tesi dedicate al mondo del lavoro. La cerimonia, oggi in aula Kessler a Sociologia, si è aperta con gli indirizzi di saluto del direttore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale, Mario Diani. La cerimonia di premiazione ha visto la partecipazione di Franco Ianeselli (segretario generale Cgil del Trentino), Lorenzo Pomini (segretario generale Cisl del Trentino) e Silvia Bertola (segretaria confederale Uil del Trentino).
È, poi, iniziato l’intervento di Bruno Anastasia, responsabile dell'Osservatorio "Veneto lavoro" su “la crescita straordinaria della quota di lavoro a termine nel 2017”. A presiedere il dibattito Paolo Barbieri del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale. Di seguito l’abstract delle tre tesi premiate.
Claudia Brunori
La selettività degli immigrati e la loro integrazione socioeconomica: il caso italiano
Corso di laurea magistrale in Sociologia e ricerca sociale, Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale. Relatore: prof. Luijky Adrianus Rodolphus
L’obiettivo della tesi magistrale è di studiare il fenomeno della selettività degli immigrati residenti in Italia e come le caratteristiche socioeconomiche pre-migrazione degli individui influenzino l’integrazione degli immigrati di prima generazione nel mercato del lavoro italiano e l’integrazione dei loro figli nel sistema educativo italiano.
Il concetto di selettività degli immigrati (immigrants’ selectivity) si riferisce alla posizione relativa degli individui nella distribuzione di determinate caratteristiche nel paese di origine. Gli immigrati non sono un campione rappresentativo del loro stato di origine, ma tendono ad essere relativamente omogenei per caratteristiche socioeconomiche (educazione, status socioeconomico), valori (tradizionalismo o progressismo), e/o area geografica di provenienza (campagna o città, regione). In letteratura, si definiscono “positivamente selezionati” gli immigrati con un livello educativo superiore alla media nel paese di origine, o con uno status socioeconomico pre-migrazione più elevato rispetto alla maggioranza dei co-nazionali.
La selettività degli immigrati è comunemente indicata come una possibile determinante dell’integrazione socioeconomica degli immigrati nel paese di destinazione. Tuttavia, gli unici test empirici di questa ipotesi sono stati fatti in relazione all’integrazione dei figli di immigrati nel sistema educativo del paese di destinazione. Il primo obiettivo della tesi è di estendere la letteratura sulla selettività degli immigrati stimando l’effetto di questa sull’integrazione della prima generazione nel mercato del lavoro. Inoltre, la tesi estende la letteratura sul ruolo della selettività degli immigrati sull’integrazione educativa dei loro figli al caso italiano, finora non studiato.
Precedenti studi sull’integrazione lavorativa degli immigrati hanno usato caratteristiche degli stati di origine (sviluppo economico, repressione politica, indice di diseguaglianze economiche) per inferire l’effetto della selettività degli immigrati sull’integrazione nel mercato del lavoro. Il terzo obiettivo di questa tesi è di testare empiricamente se le assunzioni sugli effetti delle caratteristiche dello stato di origine sulla selettività degli immigrati fatte da questi studi sono empiricamente supportate.
Nella tesi, la selettività è misurata in termini di educazione relativa, vale a dire la posizione nella distribuzione dei titoli educativi nel paese di origine. La selettività è considerata un indicatore delle competenze non osservabili (unobservable skills) degli immigrati (abilità, motivazione) e del loro status sociale soggettivo. Secondo la teoria del capitale umano, le competenze non osservabili degli individui determinano, a parità delle competenze osservabili, le possibilità di successo nel mercato del lavoro degli individui. Allo stesso tempo, lo status sociale soggettivo di un individuo – basato sulla sua posizione sociale prima di migrare – forma le sue aspirazioni e di conseguenza le strategie adottate nel mercato del lavoro e per l’educazione dei figli. Quello che ci si aspetta è che gli immigrati abbiano come obiettivo di raggiungere almeno lo stesso stato sociale che avevano nel paese di origine, attraverso la propria posizione lavorativa e attraverso l’educazione dei propri figli.
I dati empirici provengono dall’indagine ISTAT “Condizione sociale e integrazione dei cittadini stranieri” condotta nel 2011-2012. I dati riguardano individui con origini straniere (immigrati di prima e seconda generazione) residenti in Italia. L’educazione relativa è stata calcolata usando le informazioni sulla distribuzione dei livelli educativi negli stati di origine (per età, genere e anno), ricavati dal dataset Barro-Lee. Un secondo indicatore dello status socioeconomico pre-migrazione è lo status socioeconomico associato con l’ultima posizione lavorativa prima di migrare. L’integrazione nel mercato del lavoro è operazionalizzata come inattività/attività, occupazione/disoccupazione e status socioeconomico associato con la posizione lavorativa. L’integrazione nel sistema educativo dei figli degli immigrati è misurata in termini di abbandono scolastico prima del conseguimento del diploma di scuola secondaria superiore.
La tesi è divisa in tre sezioni. La prima investiga le macro determinanti della selettività degli immigrati. Le analisi sono condotte usando modelli di regressione lineare multilivello, usando gli stati di origine come unità di secondo livello. La seconda sezione mira a studiare la relazione fra selettività e integrazione nel mercato del lavoro italiano. Anche in questo caso, le analisi sono condotte usando modelli di regressione lineare multilivello con gli stati di origine come unità di secondo livello. L’ultima sezione riguarda la relazione fra selettività e status socioeconomico degli immigrati e il rischio di abbandono scolastico dei figli di immigrati. In questo caso, il numero di casi è troppo limitato per un’analisi multilivello, quindi le analisi sono condotte con regressioni logistiche al livello individuale.
Quello che emerge dalla prima parte delle analisi è che le assunzioni della letteratura precedente sull’influenza delle caratteristiche degli stati di origine sul livello di selettività degli immigrati non sono supportate empiricamente, almeno nel caso italiano. Questo suggerisce che maggiore attenzione dovrebbe essere portata su questo tema, per identificare le determinanti della composizione dei flussi migratori nel periodo attuale e in Europa.
Per quanto riguarda le restanti sezioni della ricerca, i risultati suggeriscono che le principali determinanti dell’integrazione lavorativa degli immigrati in Italia sono le loro competenze osservabili (cioè, il loro livello assoluto di educazione e l’esperienza lavorativa prima di migrare) e in particolare il livello di sviluppo economico dello stato di origine. L’educazione relativa è irrilevante per l’integrazione nel mercato del lavoro. Tuttavia, lo stato socioeconomico pre-migrazione dei genitori ha lo stesso peso per il successo scolastico dei figli che la loro condizione socioeconomica in Italia. La conclusione principale è che la selettività degli immigrati, in Italia, non può compensare qualora questi manchino delle necessarie competenze osservabili. D’altra parte, lo stato sociale soggettivo degli immigrati è tanto rilevante quanto le loro correnti condizioni economiche nell’influenzare il successo dei figli nel sistema scolastico. Se da una parte ci aspettiamo che gli individui vedano peggiorare il proprio status socioeconomico come conseguenza della migrazione, dall’altra è possibile che le generazioni successive vedano migliorare il proprio stato socioeconomico.
Emilia Filippi
Cambiamento tecnologico e lavoro: automazione e rischi di disoccupazione tecnologica
Corso di laurea magistrale in Management, Dipartimento di Economia e Management. Relatore: prof. Sandro Trento
Sin dalla Prima Rivoluzione Industriale gli economisti si sono chiesti se il cambiamento tecnologico crea disoccupazione. Secondo Ricardo (1821) e Keynes (1930) la tecnologia può causare una disoccupazione temporanea che si riassorbe con il passare del tempo, mentre nel lungo periodo si possono ottenere grandi benefici. Secondo Rifkin (1995) le tecnologie possono rendere inutili i lavoratori e causare una disoccupazione tecnologica permanente.
Negli ultimi anni il dibattito è rimerso per vari motivi, tra cui l’aumento delle attività lavorative automatizzabili; il rallentamento nella crescita dei posti di lavoro soprattutto dalla crisi finanziaria del 2008; la presenza del fenomeno di hollowing-out delle occupazioni middle-skill, consistente nel fatto che il mercato del lavoro si sta dividendo nelle occupazioni low-skill e high-skill a danno di quelle middle-skill.
II fenomeni in corso hanno indotto gli economisti a interrogarsi su come sarà il futuro. Mentre gli economisti “massimalisti” (Brynjolfsson e McAfee, 2011 e 2014; McKinsey Global Institute, 2013) sono ottimisti sul grado di progresso tecnologico e prevedono grandi aumenti nella produttività a fronte di una disoccupazione elevata, gli economisti “minimalisti” (Gordon, 2016; Summers, 2015) prevedono cambiamenti futuri minimi e ritengono che la piena occupazione sarà mantenuta.
Negli ultimi anni sono inoltre aumentati gli studi economici che si occupano degli effetti della tecnologia sul lavoro. Tra questi, gli studi che cercano di stimare la probabilità di automazione possono seguire due approcci. L’occupation-based approach è fondato sull’idea che sono le occupazioni ad essere automatizzabili. Il task-based approach si basa invece sul presupposto che sono le attività lavorative ad essere automatizzabili.
Frey e Osborne (2017) hanno stimato la probabilità di automazione delle occupazioni negli Stati Uniti seguendo l’occupation-based approach e considerando unicamente i problemi tecnici da affrontare per automatizzare le singole occupazioni. Gli autori hanno individuato alcuni vincoli di tipo ingegneristico che impediscono l’automazione di alcune attività lavorative non di routine e che incideranno sul livello di automazione futuro. Questi “colli di bottiglia” riguardano la percezione e la manipolazione, l’intelligenza creativa (la capacità di produrre idee o artefatti nuovi e preziosi), l’intelligenza sociale (la capacità di rispondere intelligentemente ed empaticamente a una controparte umana). Dopo aver stimato la probabilità di automazione delle occupazioni sulla base di questi vincoli, l’applicazione dei risultati ottenuti ai dati occupazionali degli Stati Uniti ha evidenziato che il 47% dei lavoratori è ad alto rischio di sostituzione da parte delle macchine (Frey e Osborne, 2017).
Dalla mia applicazione ai dati italiani del procedimento di stima proposto da Frey e Osborne (2017) è emerso che in Italia il 40% dei lavoratori (uomini e donne) presenta un rischio alto di sostituzione da parte delle macchine, il 47% un rischio medio e il 13% un rischio basso. La distribuzione del rischio di sostituzione tra i lavoratori e le lavoratrici è diversa: in particolare una quota minore di lavoratrici presenta un rischio basso di sostituzione da parte delle macchine mentre una quota maggiore presenta un rischio alto. Questa differenza è dovuta al fatto che le donne tendono ad essere impiegate in occupazioni meno qualificate, cosa che le espone maggiormente al rischio di sostituzione.
I risultati ottenuti dagli economisti citati possono far temere la distruzione di moltissimi posti di lavoro. In realtà si deve tenere presente che l’automazione futura effettiva (e il numero di posti di lavoro distrutti che ne consegue) dipende da molti fattori. I principali sono: la fattibilità tecnica, il costo da sostenere per adottare la tecnologia, i benefici di tipo economico e non che possono essere ottenuti, le caratteristiche del mercato del lavoro (in termini di skills dei lavoratori, della domanda e dell’offerta di lavoro), la difficoltà delle imprese nell’adozione della tecnologia, le questioni di accettazione sociale e il ruolo svolto dal lavoratore, l’aggiornamento delle skills da parte dei lavoratori, la modifica delle attività lavorative per renderle complementari alla tecnologia, la creazione di posti di lavoro favorita dalla tecnologia.
Anche se l’automazione effettiva potrà essere minore di quella temuta occorre adottare alcune politiche per limitare gli effetti negativi riguardanti soprattutto i lavoratori sostituiti dalle macchine. Per esempio è possibile favorire la creazione di posti di lavoro, formare i lavoratori e sostenere i salari e i redditi. La creazione di posti di lavoro, finalizzata a offrire un posto di lavoro di qualità ai lavoratori dislocati dalla tecnologia, può essere favorita tramite una minore regolamentazione del lavoro, la promozione della crescita economica e la riduzione della tassazione sul lavoro. La formazione dei lavoratori rimane oggi essenziale per ridurre il rischio di sostituzione da parte delle macchine, nonostante i progressi tecnologici consentono oggi di automatizzare anche i lavori non di routine. La formazione dei lavoratori deve concentrarsi sulle competenze necessarie per operare con le nuove tecnologie e deve avvenire durante tutta la carriera lavorativa.
Michele Mazzetti
L’impatto del diritto internazionale del lavoro sugli ordinamenti nazionali: i casi di Canada, Spagna e Francia
Corso di laurea in Giurisprudenza, Facoltà di Giurisprudenza. Relatore: prof. Matteo Borzaga
La ricerca che ho condotto nella mia tesi di laurea era volta a indagare l’impatto del diritto internazionale del lavoro sul diritto nazionale. Nell’approcciarmi a questa indagine mi sono reso conto che non potevo limitarmi ad una mera valutazione dell’influenza esercitata dalle norme internazionali sugli ordinamenti degli Stati, ma che era necessario rispondere a tre quesiti:
1. In che misura le forme storiche assunte dal diritto internazionale del lavoro offrono dei modelli validi alla realtà sociale contemporanea?
2. Gli organi, i processi normativi e i meccanismi di controllo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) sono idonei a influenzare il diritto del lavoro nazionale?
3. L’emanciparsi dal diritto internazionale del lavoro in favore di scelte normative nazionali limitative dei diritti dei lavoratori permette un aumento dell’occupazione stabile e dignitosa?
In primo luogo ho analizzato la nascita e lo sviluppo del diritto internazionale del lavoro dando particolare rilievo all’apporto dato dalle organizzazioni sindacali. Ho quindi ripercorso la storia dell’OIL concentrandomi sul tema del tripartitismo e sull’importanza delle parti sociali nello sviluppo della normazione internazionale. Ho poi preso in considerazione i mutamenti che la globalizzazione ha imposto all’OIL evidenziando sia i punti deboli sia gli elementi di solidità del sistema giuslavoristico internazionale.
Ho successivamente sviluppato una serie di considerazioni circa l’efficacia e l’efficienza degli organi dell’OIL, prendendo soprattutto in considerazione i modelli di produzione normativa e i meccanismi di monitoraggio. In effetti ho analizzato le tecniche redazionali delle convenzioni e delle raccomandazioni valutando anche il progresso della normazione. Quest’ultima per venire in contro alle esigenze dei Paesi in via di sviluppo è passata dall’essere rigida al caratterizzarsi per un gran numero di clausole di flessibilità.
Successivamente mi sono occupato dell’analisi dei meccanismi di controllo dell’Organizzazione, ossia, la Commissione di Esperti e il Comitato della libertà sindacale. In particolare ho preso in considerazione l’importanza dell’elaborazione quasi giurisprudenziale degli organi di controllo dell’OIL finalizzata a dare una tutela internazionale al diritto di sciopero. Ho dovuto, però, constatare i limiti di queste procedure di monitoraggio ed in particolare la fragilità delle stesse a seguito della crisi del 2012. Tutto ciò era necessario al terzo nucleo della mia ricerca elaborato sul modello del diritto comparato. Per l’esattezza ho considerato la capacità dell’OIL di influenzare il diritto di tre Paesi, che per sistema economico e giuridico erano fra loro assimilabili: Canada, Spagna e Francia. In effetti ho selezionato tre standard significativi e ho valutato come gli Stati si erano comportati rispetto a tali normative. Il primo caso considerato è stato quello della limitazione de diritto di sciopero in Canada, in secondo luogo ho guardato alla Spagna e alla riforma Rajoy che ha compresso la negoziazione collettiva, infine ho trattato della Francia e del suo approccio al tema della risoluzione del rapporto di lavoro da parte datoriale. Il trait d’union delle scelte legislative nazionali era quello di comprimere i diritti dei lavoratori e favorire i poteri datoriali in modo molto significativo. In effetti la legislazione canadese è pervenuta a dare rilievo costituzionale al diritto di sciopero solo in anni molto recenti, con la pronuncia della Corte suprema Saskatchewan F.L. c. Saskatchewan. In precedenza la legislazione e la giurisprudenza non riconoscevano né lo sciopero, né la negoziazione collettiva come diritti. Il sindacato aveva un ruolo marginale perché era imbrigliato all’interno di numerose leggi federali e provinciali tese a limitarne l’azione, a sua protezione vi era solo un articolo della Costituzione teso a garantire la libertà di associazione. Nella mia ricerca ho evidenziato come il progresso giuridico sia conseguito grazie al dialogo e lo scontro fra l’OIL e il Canada, ingenerato dai numerosi ricorsi presentati dalle organizzazioni dei lavoratori al Comitato della Libertà sindacale.
Il secondo esempio di violazione della disciplina internazionale considerato è quello della riforma Rajoy che ha compresso la negoziazione collettiva favorendo significativamente i poteri di gestione e coordinamento dei datori di lavoro. Nel quadro della crisi economica e con la motivazione del rilancio occupazionale il governo spagnolo aveva approvato il Real Decreto-Ley 3/2012 che disapplicava legislativamente le intese interconfederali raggiunte. Aveva, altresì affermato una generalizzata primazia del contratto di secondo livello su quello nazionale, favorendone la disapplicazione anche attraverso il cd. descuelgue empresarial. Alla luce di tutto ciò si è evidenziato sia l’atteggiamento governativo ostile alle istanze internazionali, volte al recupero del modello dell’OIL, sia la risposta positiva della dottrina spagnola che ha provato a ripristinare le tutele precedenti. Sì è anche sottolineato che la soluzione al caos derivante dalla riforma delle relazioni industriali è stata trovata dalle parti sociali nel terzo Acuerdo para el empleo y la negociación colectiva, ispirato al “Testo Unico sulla Rappresentanza” firmato in Italia nel 2014.
Il terzo esempio considerato è stato quello del contrat “nouvelles embauches” francese. La normativa in oggetto era quella del 2005, che aveva previsto una nuova figura contrattuale tesa a favorire le nuove assunzioni. Questo contratto era a tempo indeterminato, ma prevedeva che per un periodo di due anni dall’assunzione il lavoratore potesse essere licenziato senza preavviso e senza obbligo di motivazione. Esso fu mandato illegittimo dalla Cour de Cassation perché contrario alla Convenzione n. 158 sul licenziamento. Anche qui ruolo importante fu giocato dalla condanna del Comitato della libertà sindacale dell’OIL scaturita da una istanza della CGT-FO.
Alla fine di questo percorso sono giunto alla conclusione che il diritto internazionale del lavoro sia ancora uno strumento fondamentale per la tutela dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori. Ho altresì dimostrato l’importanza dei meccanismi tripartiti di controllo nella soluzione di questioni giuridiche complesse. Ho, infine, suffragato l’idea che a soluzioni nazionali compressive dei diritti dei lavoratori vadano preferite azioni condivise e generali più idonee a rispondere alle sfide della globalizzazione.