Trento
28 Dicembre 2016

Atrofia muscolare: ricercatori al lavoro su una terapia non-invasiva

Pubblicati su “Science Translational Medicine” i risultati di uno studio clinico su una malattia neurodegenerativa che si manifesta nella popolazione maschile. Tra gli autori ci sono quattro ricercatrici attive al Centro di Biologia integrata dell’Università di Trento

Come una corsia preferenziale che permette di arrivare alla meta in modo diretto, veloce, sicuro. È la strada che potrebbe aprire uno studio clinico sull’atrofia muscolare spinale e bulbare pubblicato da “Science Translational Medicine” nei giorni scorsi: la strategia utilizzata consiste nel somministrare un composto per via intranasale, la quale permette di raggiungere i neuroni malati e i tessuti periferici attraverso il sistema nervoso centrale.
L'atrofia muscolare spinale e bulbare (in sigla SBMA, che sta per “Spinal and Bulbar Muscular Atrophy”), nota anche come malattia di Kennedy, è una malattia neurodegenerativa dalle conseguenze pesanti. Comporta la perdita dei motoneuroni che partono dal midollo spinale e che controllano il movimento del corpo e il movimento della muscolatura scheletrica. Tale malattia è dovuta a una mutazione del recettore degli androgeni e si manifesta nella popolazione maschile perché gli uomini hanno elevati livelli di androgeni rispetto alle donne.
Tra gli autori dello studio pubblicato su “Science Translational Medicine” ci sono Maria Josè Polanco, Diana Piol, Mathilde Chivet e Maria Pennuto, tutte ricercatrici attive al Dulbecco Telethon Institute del Centro di Biologia integrata – Cibio dell’Università di Trento, alcuni colleghi che da tempo collaborano con loro: Andrew C. B. Cato, Albert R. La Spada, Fabio Sambataro, Kenneth H. Fischbeck e Illana Gozes e ricercatori di altre istituzioni.
«Il nostro studio – spiegano le ricercatrici del Cibio di Trento – identifica una molecola (peptide), una proteina solubile, che può essere assunta per via intranasale e che in questo modo passa direttamente nel sistema nervoso centrale raggiungendo così quei neuroni che controllano i movimenti del corpo e dello scheletro, neuroni che invece è difficile raggiungere per via endovenosa o intramuscolare. Inoltre, abbiamo verificato che il peptide ha effetto anche su tessuti periferici, quali il muscolo scheletrico stesso».
Quale potrebbe essere il risultato? «La proteina, una volta raggiunti i motoneuroni malati, riduce i livelli del recettore degli androgeni mutato e quindi rallenta il progredire della malattia mitigandone le conseguenze».
Lo studio è stato cofinanziato da Telethon (Italia e USA), dalla Provincia autonoma di Trento e da altre associazioni nazionali e internazionali.
Gli autori dell’articolo (“Adenylyl cyclase activating polypeptide reduces phosphorylation and toxicity of the polyglutamine-expanded androgen receptor in spinobulbar muscular atrophy”) sono:
Maria Josè Polanco, Diana Piol, Mathilde Chivet e Maria Pennuto (Università di Trento, Italy); Sara Parodi, Stefano Espinoza, Andrea Contestabile e Anna Rocchi (Istituto Italiano di Tecnologia, Italy); Conor Stack, Christopher Grunseich e Kenneth H. Fischbeck (NINDS-NIH, USA); Helen C. Miranda e Albert R. La Spada (University of California, San Diego, USA); Patricia M.-J. Lievens (Università di Verona, Italy); Tobias Jochum e Andrew C. B. Cato (Karlsruhe Institute of Technology, Germany); Raul R. Gainetdinov (St. Petersburg State University, Russia); Andrew P. Lieberman (University of Michigan, Ann Arbor, USA); Fabio Sambataro (Università di Udine, Italy); Illana Gozes (Tel Aviv University, Israel).
(e.b.)

Un abstract dell’articolo è disponibile all’indirizzo: http://stm.sciencemag.org/content/8/370/370ra181